Il termine ‘couture’ porta subito alla mente un mondo di abiti lussuosi, fatti a mano e su misura, creati con tessuti pregiati, fitti ricami, fiocchi, balze o tagli apparentemente semplicissimi ma realizzati con tecniche laboriose che richiedono tempo e maestria, come il taglio sbieco o il moulage.
La couture racchiude in sé il vero potere della moda, quello di far sognare e desiderare un mondo migliore attraverso gli abiti.
Oggi molto di ciò sembra obsoleto, in un mondo che consuma a una velocità senza precedenti, dove il valore dei vestiti è stato seppellito sotto una montagna di felpe, sneakers e finta ‘coolness’.
Simon Cracker ha già nel suo DNA l’idea di unicità e di lavoro manuale, che necessita di tempo e cura. L’idea di ‘poorcouture’ nasce dalla voglia di guardare anche all’alta moda da un altro punto di vista: la nostra couture ha in sé gli stessi principi ma prende vita con materiali di scarto e abiti upcycled, che tornano sui corpi in maniera ancora più curata e spettacolare. Non c’è nostalgia, ma desiderio di usare il passato per ‘rompere’ con un presente che non ci soddisfa.
Il pensiero della couture come pratica vetusta viene così sovvertito: i copriletto si plasmano in gonne a pieghe sontuose, i ganci delle tende diventano gorgiere, un completo di denim riciclato può andare al ballo di Cenerentola, le strisce di seta e garza, scarti di produzione, si modellano sul corpo grazie al silicone e un vecchio paracadute si trasforma in un abito da sposa dallo strascico lunghissimo. I gioielli e le decorazioni sono ditali e spille da balia: punk e sartoria trovano così la via per comunicare.